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Direttore di San Vittore si racconta: “ci vuole cuore e coraggio”

GIACINTO SICILIANO ‘DI CUORE E DI CORAGGIO’ (RIZZOLI PP 272 E. 17,10) “Non devo trattare il carcere da carcere, altrimenti qui dentro diventiamo tutti carcerati e carcerieri”. E’ il principio che ha illuminato percorso professionale e umano di Giacinto Siciliano e che viene a galla in ‘Di cuore e di coraggio’, un libro autobiografico in cui l’attuale direttore del carcere milanese di San Vittore ripercorre le tappe della sua “vita normale, ma non troppo” a contatto con quel ‘mondo dentro il mondo’ in cui si intrecciano storie e drammi di detenuti, dagli stranieri arrestati per spaccio o per furto, agli ergastolani, fino ai mafiosi più irriducibili detenuti in regime di 41 bis tra cui Totò Riina, Giuseppe Graviano o Michele Zagaria. Il volume, edito da Rizzoli e in libreria dal primo settembre, attraverso le tappe della carriera di Siciliano e i suoi ricordi personali, offre uno spaccato, seppur da dietro le sbarre, della storia d’Italia a cui si aggiunge la riflessione di un uomo di Stato che ha dedicato la vita a dirigere penitenziari con l’obiettivo di cercare di far ritrovare il senso dello Stato in chi lo ha perduto.
    La prima esperienza di Siciliano risale al 1993 con Busto Arsizio e poi la casa circondariale di Monza. Da lì il trasferimento al supercarcere di Trani dove, l’incontro con i brigatisti detenuti fa venire a galla la vicenda di suo padre, in passato uno degli obbiettivi, fortunatamente mancato, delle Br. Dopo di che Sulmona, Opera – periodo in cui è stato costretto a vivere sotto scorta per le minacce dell’allora boss dei boss – e San Vittore.
    I capitoli di questo libro aprono una finestra su realtà delicate e dolorose come le rivolte – anche quella scoppiata sempre a San Vittore nel marzo 2020 a seguito della diffusione del Coronavirus – e dei suicidi in cella. Al tempo stesso si comprende cosa voglia dire gestire e tentare sempre, anche nei casi estremi, di avviare un percorso di recupero. Perché quello del direttore penitenziario – come lo interpreta Siciliano – è un lavoro “di cuore e di coraggio”: non si tratta di fare sconti, anzi al contrario occorre impegnarsi quotidianamente per dare fiducia a ogni detenuto e aprire un dialogo che lo porti a comprendere i propri errori e a riappropriarsi del valore delle regole e, appunto, del senso dello Stato. Per Siciliano ogni uomo è una storia, ma è anche un futuro. Il suo dovere è indicargli la via per riappropriarsi di una vita solida e libera. (ANSA).
   

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