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Un divano a Tunisi, tra Islam, famiglia e psicanalisi

(ANSA) – ROMA, 19 LUG – “La psicanalisi? Non ci serve, noi abbiamo l’Islam”. E’ una delle battute che segnano il percorso accidentato ma ricco di incontri rivelatori per Selma (interpretata con grazia e intensità dall’attrice iraniana Golshifteh Farahani), giovane psicanalista franco-tunisina, decisa ad aprire il suo studio nella terra d’origine in Un divano a Tunisi. La riuscita commedia sociale di Manele Labidi, vincitrice del Premio del pubblico – BNL People’s Choice Award alle Giornate degli Autori della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2019, arriva con Bim in anteprima nelle arene dal 19 luglio e da settembre nei cinema.

In una Tunisi post Primavera araba, la regista franco-tunisina mette in scena le resistenze di una società, per molti aspetti moderna, che ancora emergono sul ruolo della donna. Fra i modelli a cui la cineasta si rifà c’è la commedia all’italiana (ama film come I soliti ignoti, I mostri, Matrimonio all’italiana Brutti, sporchi e cattivi); una vicinanza al nostro Paese riflessa anche dalla colonna sonora, che punteggia la storia anche con due canzoni cantate da Mina: ‘Le strade vuote’ e ‘Io sono quel che sono’.

Nella trama, la repentina partenza dell’indipendente e coriacea Selma dalla Francia e la decisione di stabilirsi e esercitare come psicanalista nella terra dei genitori, “per essere più utile”, provocano imbarazzo e curiosità fra parenti e vicini. Eppure appena apre il suo studio, nella mansarda sulla terrazza della casa di famiglia, la fila di pazienti si fa subito lunghissima: dalla stressata proprietaria del salone di bellezza del quartiere, al panettiere (Hichem Yacoubi) che le svela i dubbi sulla sua sessualità (con tanto di sogni per lui incomprensibili, come quello in cui immagina di baciare Putin); da un imam caduto in depressione a un uomo convinto di essere spiato. Tuttavia un poliziotto iperzelante (Majd Mastoura), interessato a Selma, e una burocrazia tanto lenta quanto macchinosa e imperscrutabile complicano la vita alla protagonista.

“L’idea per questo film mi è venuta il giorno in cui ho detto a mia madre che ero in analisi. Ho avuto paura che morisse – ha raccontato la regista -. Per una donna tunisina, musulmana e tradizionalista come mia madre, era decisamente troppo”. Le motivazioni iniziali “di Selma sono semplici e razionali: vuole portare la sua professionalità in un paese che ha appena vissuto una rivoluzione e sta iniziando ad aprirsi, ma soffre di una carenza di psicoanalisti e psicoterapeuti per le classi operaie”. Tuttavia la protagonista “è tornata nel suo Paese anche per fare i conti con il suo passato. Ristabilire il legame con la storia della sua famiglia, per arrivare a confrontarsi con essa, le sarà d’aiuto per portare a termine il suo personale percorso terapeutico. Il ritorno alle origini inizia lentamente a scalfire la sua maschera”.

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Il desiderio di Manele Labidi era “filmare la Tunisia e in particolare la classe media, la fascia di popolazione più lacerata tra modernità e tradizione. La principale preoccupazione delle classi meno abbienti è la sopravvivenza economica e le classi più benestanti sono per lo più occidentalizzate. Il conflitto si concentra sulla borghesia che ha sulle spalle il peso dell’economia nazionale ed è spesso piena di ipocrisie quando si tratta di sessualità e religione”.
   

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