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Israele prepara il piano per il dopoguerra a Gaza, Hamas pensa a un Califfato

Israele prepara il piano per il dopoguerra a Gaza, mentre l’obiettivo di Hamas è un Califfato sulla Palestina con capitale Gerusalemme, almeno secondo quanto annunciato dall’ex ministro degli Interni della fazione Fathi Hammad alla tv al-Aqsa. Il governo Netanyahu, malgrado le pressioni americane e europee, ha ribadito più volte di non volere l’Anp di Abu Mazen al governo della Striscia una volta finito il conflitto e sradicata Hamas. Per questo il premier ha indicato un team ristretto per elaborare una strategia delle cui direttrici principali viene informata passo dopo passo anche l’amministrazione Biden. Alla guida c’è il consigliere della sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi, stretto alleato di Netanyahu. Insieme a lui, il ministro degli Affari strategici Ron Dermer (fino a due anni fa ambasciatore a Washington) ed esponenti dell’esercito, dello Shin Bet e del Mossad, oltre all’attuale inviato negli Usa Mike Herzog. Il team dovrebbe di nuovo incontrarsi questa settimana.

Secondo quanto riferito dal portavoce del governo Eylon Levy, l’intenzione di Israele non sarebbe comunque quella di spingere la popolazione di Gaza fuori dalla Striscia. A questo proposito Levy ha definito “scandalose e false” le accuse rivolte allo Stato ebraico. In particolare Levy si è riferito a quanto sostenuto a Doha dal ministro degli Esteri della Giordania Ayman Safadi sullo “sforzo sistematico di Israele di svuotare Gaza della sua gente”. Israele, ha precisato il portavoce del governo, ha solo esortato la popolazione a lasciare le principali aree di guerra, non la Striscia.

Anche l’Europa si muove: Roma, Berlino e Parigi – con una lettera firmata dai tre ministri degli Esteri Tajani, Baerbock e Colonna – hanno appoggiato l’intenzione dell’alto rappresentante Ue Josep Borrell di imporre sanzioni specifiche nei confronti di Hamas. Borrell ha tuttavia annunciato che è “arrivato il momento” di sanzioni anche per “i coloni violenti” israeliani in Cisgiordania e che su questo sta lavorando in sede di Consiglio Ue.

Israele intanto ha fatto sapere che 20 degli ostaggi sono stati uccisi “da Hamas a Gaza mentre erano in prigionia”, mentre Mosca – dopo il burrascoso colloquio di ieri tra Netanyahu e il presidente russo Vladimir Putin – ha chiesto l’immediata liberazione di quelli (173) che sono ancora nelle mani dei miliziani. Al 66esimo giorno di conflitto, l’esercito ha riferito di battaglie intense, anche strada per strada, sia al nord (a Jabalya e a Shujaia) sia al sud dell’enclave palestinese, dove ci sono le roccaforti principali della fazione islamica. A testimoniare l’asprezza dei combattimenti in corso è anche il numero dei soldati israeliani uccisi – 104 dall’inizio dell’operazione di terra – e le vittime nella Striscia che continuano a salire: secondo il ministero della Sanità di Hamas, che non distingue tra civili e miliziani, sono arrivate ad oltre 18 mila. Ma non c’è solo Gaza: al nord di Israele, continua sempre più intenso lo scontro con gli Hezbollah libanesi. L’esercito ha riposto agli 8 razzi lanciati da oltre confine e in un attacco israeliano è stato ucciso il sindaco della cittadina di Tayybe Hussein Mansur, 75 anni.

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 Il Washington Post infine ha rilanciato le accuse sul fatto che Israele abbia usato bombe al fosforo bianco in aree abitate da civili con ordigni forniti dagli Stati Uniti: in particolare, secondo la ricostruzione del giornale, il 16 ottobre nell’area di Dhahira, nel sud del Libano. Washington, per bocca del portavoce del consiglio per la sicurezza nazionale Usa John Kirby, si è detta molto “preoccupata”. “Noi operiamo in maniera legale, sulla base del diritto internazionale”, ha commentato in serata il portavoce militare israeliano Daniel Hagari. Secondo la televisione pubblica Kan, le sue parole vanno interpretate come una conferma che l’esercito ricorre a quelle bombe solo per creare una schermatura delle proprie forze, e non contro civili o per appiccare incendi. 

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