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La primavera spezzata di Severodonetsk

Arrivare a Severodonetsk è come planare sulla luna: strade deserte, crateri, palazzi inceneriti.
    Un silenzio irreale incombe sulla città, spezzato solo dal suono lugubre, incessante dei colpi dell’artiglieria. Infuriano i combattimenti intorno alla città e soprattutto a Voevodovka, porta d’accesso per Severodonetsk, roccaforte ucraina al confine con la repubblica separatista di Lugansk, già occupata e poi liberata nella guerra del 2014. Gli ultimi giorni sono stati un incubo. Mentre viene respinto indietro dalla controffensiva ucraina nell’Oblast di Kharkiv, l’esercito russo avanza verso Severodonetsk, nei cui sobborghi sono in corso scontri tra le forze separatiste filo-russe e l’esercito ucraino.
    “Non è mai arrivata la primavera qui”, racconta Ria, stretta nel suo cappotto malconcio, mentre contempla rassegnata i gelsomini in fiore. Una boccata d’aria prima di tornare a rintanarsi. Uno scantinato umido e freddo, coperte e materassi ammassati l’uno accanto all’altro, l’unico raggio di sole penetra da una fessura tra i mattoni. Ria, il volto scavato dalla rughe, corre a sedersi accanto al figlio Constantine, immobile nel letto. Sette anni fa una mina ha centrato la sua macchina. “Siamo abituati alla guerra qui, siete voi ad averla dimenticata”, mastica amaro lui. Salvo per miracolo, da allora ha perso l’uso delle gambe. Una tragedia che si è rivelata una risorsa: il neon che illumina il rifugio è alimentato dalla batteria della sua sedia a rotelle elettrica. “Mi rimarrà sempre impressa una data, quella dell’8 marzo – racconta Constantine -.
    Quel giorno un missile è esploso vicino casa mia”. A soccorrerlo sono stati i suoi vicini che lo hanno portato qui, nel rifugio.
    Vivono stipati in una ventina a dividersi un’aria che non c’è.
    Oggi però è un giorno di festa, a dispetto delle bombe che piovono dal cielo. È il compleanno della figlia di Anna, la più anziana del gruppo. Formaggio, un po’ di scatolame, il pesce essiccato che penzola da un filo di una cucina arrangiata per strada. Un uomo spacca la legna per il bivacco, gli altri improvvisano un concerto di chitarre. Suonano Wind of Change, sperando forse che qualcosa cambi. Ma Anna non riesce ad essere felice. Novant’anni, rannicchiata su una sedia in disparte, si aggrappa al suo bastone come fosse la sua ancora di salvezza.
    “Quando finirà la guerra?”, ripete come una litania in lacrime.
    Anna è sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale e, racconta, non aveva mai visto tanta brutalità come in questo “sporco conflitto”. “Allora non colpivano i civili – ricorda la babushka -. Ora non possiamo muoverci, siamo in trappola come topi”.
    Da Severodonetsk ogni giorno partono dei bus quasi vuoti.
    Solo pochi si arrischiano ad andare per strada, sfidando il fuoco dell’artiglieria. “Non so come stiamo sopravvivendo. È difficile capire cosa sta accadendo, il perché di tutto questo”, dice ancora Anna che come tanti ucraini ha amici e conoscenti in Russia. “Quando è iniziata la guerra ho scritto loro, dicendo che lì potranno anche avere l’acqua del Dnipro, ma sarà mescolata al sangue e alle lacrime della nostra gente”.

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