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Working non è solo smart

 LAVORARE (DA CASA) STANCA di NICOLA ZAMPERINI (Castelvecchi; 91 pagg.; euro 12.50) La pandemia se lascerà qualche temporaneo disorientamento nelle persone una volta riacquistata libertà di movimento (e dalla mascherina), rischia di cambiare invece le modalità del lavoro e del nostro vivere sociale. Perché lo smart working, parente stretto del telelavoro (telecommuting) – di cui si vocifera da anni senza che qualcuno abbia mai avuto il coraggio di attuarlo sistematicamente – diventerà una modello standard. Necessità fino ad oggi, da domani sarà una occasione; per i lavoratori e per i datori di lavoro.
    Tra i primi a porsi interrogativi su questa rivoluzione in atto è Nicola Zamperini, giornalista e consulente di comunicazione digitale.
    All’ebbrezza da libertà che animava i primi giorni nel lavorare da casa si è sostituita una preoccupata consapevolezza: restiamo connessi per ore – plung and play – finendo per lavorare di più che non in ufficio. Zamperini lo chiama binge working, una scorpacciata di riunioni. E distingue smart working (lavorare da casa ma con accesso a server, documenti, applicativi) da remote working, cui ci siamo adattati forzatamente. Comunque lo si chiami, il lavoro da casa riduce la mobilità e suoi disagi (pendolarismo), inquinamento e affollamento, ma ci rende ancor più dipendenti dalla tecnologia e impoverisce la filiera della ristorazione lì dove sono concentrati gli uffici. Fenomeno che non riguarda gli sfruttati della ‘gig economy’, come rider e autisti, gli unici a sfrecciare giorno e sera nelle città deserte.
    Uno studio della IBM ha dimostrato che, se non c’è bisogno di presenza fisica, in molti si trasferiscono fuori città, in aree meno costose. Avanguardia sono i più ricchi, al lavoro nelle seconde (a parità di connessione). Non esistono limiti geografici: come avviene per i centralinisti indiani che per conto di compagnie aree rispondono a viaggiatori statunitensi, o a quelli albanesi che propongono caldaie, forniture di energie agli utenti italiani, così un ingegnere informatico di Bangalore, Canberra o Roma non dovrà spostarsi per lavorare alla Silicon Valley. Proprio qui è molto forte il sommovimento: il modello informale, elastico e scanzonato di quelle aziende mirava ad attirare i dipendenti sul luogo di lavoro con benefit, palestre, asili nido, convinti che lo stare insieme – come davanti alla macchina del caffè – potenzi il confronto, porti nuove idee e fidelizzi. C’è chi, non potendo permettersi un costosissimo affitto nei pressi, vive in camper nel parcheggio aziendale. Bene, tutti hanno dovuto cambiare idea: Google farà lavorare da remoto i dipendenti fino ad almeno metà 2021, Twitter e Shopify per il tempo che vorranno; la metà dei 45 mila lavoratori di Facebook lavorerà da remoto entro il 2030. Quanto ne risentiranno mito e cultura aziendale? Difficile dirlo oggi.
    Alcune aziende californiane mettono a disposizione luoghi virtuali dove ricreare uno spazio di lavoro tutti insieme.
    D’altronde, OpenText (3 miliardi dollari di fatturato), ad esempio, chiude metà dei 120 uffici sparsi nel mondo. Non è il solo.
    Se è facile immaginare che cybersecurity e industria delle “connessioni” si svilupperanno – Zoom è passata in meno di un anno da 10 a 300 milioni di connessioni al mese – l’incognita è il fattore umano: cosa comporterà la scomparsa della fisicità sul lavoro? Per Zamperini si sta già attenuando la relazione professionale, le case sono un po’ ufficio e le persone sono più isolate (non solo per la pandemia). Anche dal punto di vista sindacale. (ANSA).
   

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