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Le macerie del Novecento secondo Bernhard in Tv

Thomas Berhard ha tutta la vita descritto un mondo arrivato ”alla meta”, come s’ intitola un suo dramma, e ”la fine è la nostra meta” sottolinea con spirito liberatorio Robert Schuster, protagonista (e per molti versi alter ego dell’autore) di ”Piazza degli eroi”, sua ultima, conclusiva invettiva (trasmessa ieri e oggi in replica su Rai5 con la regia di Roberto Andò per lo Stabile di Napoli) sulla finis Austriae, non più per la perdita della grandezza, vitalità e economia imperiale, ma come degrado definitivo per il profondo sostanziale cambiamento degli uomini dopo la seconda guerra mondiale, incapaci di imparare qualcosa dal proprio passato, che ne fa anche una finis Europae. Questa bella, prima rappresentazione italiana di ”Piazza degli eroi”, esempio di un teatro che Rai Cultura sostiene e che resiste e non vuole soccombere, avrebbe dovuto debuttare al Mercadante di Napoli a dicembre scorso e fermato dalle restrizioni anti Covid è una riflessione aspra, dolorosa, furente e inappellabile sulle macerie del Novecento. Non a caso tutto si svolge nel 50/mo anniversario dell’Anschluss, l’invasione nazista dell’Austria nel 1938, e il titolo e luogo dell’azione è quella piazza in cui Hitler annunciò allora l’annessione del paese alla Germania. Allo stesso modo si capisce presto che quel che Bernhard ci racconta non riguarda solo Piazza degli eroi e la sua odiata Austria (dove, per testamento, tutte le sue opere non possono essere pubblicate o rappresentate) ma, se ”tutti gli europei assieme sono i becchini del loro paese”, si riferisce a qualsiasi piazza di grande città occidentale di oggi, con incredibile attualità, anche se il lavoro si svolge ed è stato scritto nel 1988. Siamo nella casa di un professore, Josef Schuster, che si è appena suicidato sentendosi costretto a accettare di tornare a Oxford, dove aveva già riparato durante le persecuzioni naziste, proprio per il rigurgito di violenza, fascismo e razzismo antisemita che rivive attorno a sé a Vienna. Protagonista è suo fratello Robert, docente di filosofia, che, con le due figlie di Josef, lo ricorda e si lascia andare a una descrizione-invettiva sulla trasformazione e degrado del mondo, degli uomini. per lui tutto è oramai, nel migliore dei casi, pseudo, a cominciare dallo pseudosocialismo durante il quale sono ricomparsi i fascisti e qualcuno ha sputato per strada a una sua nipote in un gesto di disprezzo antisemita. Così sostiene che era meglio 50 anni fa, quando gli austriaci convivevano pacificamente con gli ebrei. La sua rabbia comprende allora tutto, a cominciare dal Presidente della Repubblica ”filisteo e ladro” al Presidente del Consiglio ”astuto affarista” arrivando sino all’ipocrisia del Papa. Quel che gli ”scrittori rappresentano del disfacimento d’oggi non è nulla in confronto alla realtà”. Quindi ”Non esistere più è il nostro traguardo. Sarebbe terribilmente devastante pensare di tornare al mondo una seconda volta” e ”mio fratello può dirsi fortunato che gli sia venuta bene un’uscita così spontanea”. I professor Robert, impersonato da un grande Renato Carpentieri dolentemente furioso, arreso all’evidenza eppure vitale nel suo affrontare e disprezzare la realtà, parla anche molto di teatro con le sue nipoti, e sottolineano le ”cose scadenti” che si rappresentano oramai al Burgtheater, tempio della prosa viennese, con attori di bassissimo livello. Così tutto torna, visto, che, dicono: ”la vita è tutta una commedia, una recita”. L’antico amore per le cose ben fatte, ”fatte ad arte” è finito e a questo fa riferimento la lunga scena iniziale in cui la governante signora Zittel spiega come il defunto voleva si stirassero e piegassero le sue camicie. Sono temi e trovate metaforiche che ritornano variate in quasi tutta l’opera di Bernhard e il suo demolire ogni immagine della Felix Austria con quella sua qualità naturalmente teatrale di scrittura, con la sua sapienza retorica e eloquenza scenica che coinvolgono anche solo alla lettura con la forza di un incisione al bulino, che gli interpreti rendono vera con aspra dolcezza, a cominciare dalle due sorelle di Silvia Ajelli (Anna) e Francesca Cutolo (Olga) col più ironico Paolo Cresta (Lukas, il loro fratello), quindi la esemplare rigidità, ma con oramai piccole umane incrinature della governante Zittel di Imma Villa, cui si aggiungono la cameriera Herta di Valeria Luchetti. Sono tutti da applaudire molto calorosamente col pensiero, davanti al silenzio della fine della trasmissione Tv. E così gli altri, da Betti Pedrazzi a Stefano Jotti da Enzo Salomone al fantasmatico pianista in scena di Vincenzo Pasquariello, bella trovata emblematica della raffinata e incisivamente sostanziosa regia di Andò, con quella elegante scena (di Gianni Carluccio) cosparsa di significative foglie morte e quasi tutta sui toni del bianco e grigio, più quelle scarpe del morto, quasi un segno dei cumuli di vestiari che ancor oggi al museo di Auschwitz testimoniano di chi fu, lasciate sempre, inquietanti nella loro significativa incongruità, in proscenio. (ANSA).

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