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Maradona, anche il cinema lo renderà immortale

Diego Armando Maradona è vissuto nell’era del cinema e sarà grazie alle immagini che la sua memoria rimarrà più a lungo negli occhi degli amanti del calcio e nella leggenda popolare. Sono moltissimi i documentari come “Amando A Maradona” di Javier Vazquez, i reportage, le telecronache con lui al centro e per questo tutti gli appassionati più giovani tendono a considerarlo più del mitico Pelé. Ma il suo mito va ben oltre un campo da calcio. “”Una partita – ha chiosato uno dei suoi più grandi ammiratori, il napoletano Paolo Sorrentino – ha molto in comune con un film. Narrazione, tecniche, tattiche e un finale non scontato che nessuno conosce. Il calcio è una bella variazione del cinema”.

E non è quindi per caso che in più di un’occasione ne abbia trasferito sullo schermo l’icona e lo spirito. In “Youth” ha fatto addirittura ricorso a un grande attore-trasformista argentino come Roly Serrano per evocare il “personaggio” Maradona, intento a riflettere sulla vita a bordo piscina e a combattere con una pallina da tennis, docile come un pallone da football, vincendo con la classe l’obesità che gli toglie il fiato. Oggi che Maradona se ne è andato per una crisi cardio-respiratoria è impossibile non averlo davanti agli occhi, ansimante eppure vitale, così come ce lo ha disegnato con una caricatura grottesca e poetica insieme il suo geniale regista-tifoso. Che a Maradona si ispira anche nel film attuale, “E’ stata la mano di Dio”, legato a un fatto autobiografico e insieme alla celebre frase pronunciata dal giocatore dopo il goal di rapina contro l’Inghilterra. Sorrentino ha raccontato più volte l’ispirazione del film e come un destino superiore gli abbia salvato la vita per…merito della sua passione da tifoso: quando lasciò i genitori in vacanza per andare a vedere una partita del suo idolo sfuggendo così alla morte l’orribile notte in cui un avvelenamento da ossido di carbonio lo privò di padre e madre. Tanto che oggi all’ANSA Sorrentino dice:”Maradona non è morto. E’ solo andato a giocare in trasferta”. 
    Chi volesse rivedere al cinema cosa è stato l’artista Diego sul campo da gioco non può che rifarsi all’esemplare documentario “Diego Maradona” dell’inglese Asif Kapabia, uno che di sportivi e di vite bruciate se ne intende (dal pilota Ayrton Senna alla cantante Amy Winhouse). Anche Marco Risi si è cimentato con l’idolo e il giocatore, ma il suo bel lavoro del 2007 ha il pregio di cercare l’uomo dietro il calciatore e dietro entrambi quella passione collettiva che a Napoli ha fatto di lui un personaggio da presepe e un monumento alla condizione di una città che – lo dice Sorrentino – è “un mondo dentro una città”. Questa era in effetti la chiave per svelare il mistero del “Numero 10”, sempre spettacolare nelle sue gesta, nei suoi eccessi come nelle sue ingenuità. Meglio di tutti lo intuì un irregolare come lui, il regista Emir Kusturica, che gli ha dedicato un film-apologia intitolato con sprezzo del pericolo proprio “Maradona Kusturica”. Qui Diego racconta le sue idee, la sua vita controcorrente, le sue passioni politiche e sociali.
    Non si nasconde nelle sue debolezze (dalle donne alla cocaina), non fa sconti a una società, prima di tutto quella sportiva, che sfrutta e divora i suoi talenti, non esita a mostrarsi fragile e guerriero nella stessa scena. Kusturica mette in angolo la dimensione del tifoso e per questo esalta un cinema delle persone, in cui la soggettività del punto di vista (un po’ come Oliver Stone con Fidel Castro) è sbandierata e vincente.
    Se il cinema tanto ha dato e tanto darà a Maradona, è un peccato che mai abbia scoperto il tesoro narrativo che portava con sé.
    Lo aveva capito uno scrittore sceneggiatore come l’argentino Sergio Olguin che ambienta il suo memorabile “La squadra dei miei sogni” della baraccopoli di Villa Fiorito, ai margini di Buenos Aires, dove il Pibe de Oro diede a tre anni i primi calci a un pallone di stracci: lo stesso che i giovanissimi eroi del romanzo cercano freneticamente dopo che qualcuno lo ha sottratto alla comunità del quartiere. Purtroppo quelle pagine non sono mai diventate cinema, anche se a leggerle sembra di veder scorrere i vecchi filmati sul Maradona bambino che già sognava di calcare il campo del Boca Juniors. Invece, nei suoi anni italiani, Dieguito finì solo in una allegra farsa di Neri Parenti, “Tifosi” del 1999, in cui duetta con Nino D’angelo, ladruncolo-tifoso che prima gli svaligia la casa e poi restituisce il bottino al suo campione del cuore. A vederlo avrebbe sorriso, un po’ altezzoso, il suo amico e rivale Pelé che ha avuto la gloria di un vero film, “Fuga per la vittoria” di John Huston, con un vero personaggio e grandi colleghi (da Michael Caine a Sly Stallone, da Ardiles a Bobby Moore. In quel caso fu la cinepresa di un maestro del cinema a immortalare la rovesciata di Pelé. A Diego rimangono le telecronache di Bruno Pizzul a Italia ’90. (ANSA).
   

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