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La peste nuova, tra Abbate e Camus

   La riscrittura è il fondamento de La Peste nuova di Fulvio Abbate, in una rara e complessa operazione metaletteraria che assume un grande significato filosofico in un momento di mancanza di criteri oggettivi di interpretazione della realtà.
    Nel 1997 lo stesso scrittore mise mano ad una operazione profetica, riscrisse La peste di Albert Camus in modo sagace, quasi parodistico in La peste bis. E ora, negli ultimi mesi, durante il lockdown dovuto alla pandemia, giustamente Abbate ha pensato di riprendere in mano quel suo vecchio romanzo che raccontava di una epidemia senza averla vissuta ma ispirandosi ad un altro libro in cui l’epidemia era altrettanto immaginaria.
    Ora che era diventata la sua realtà, la realtà di tutti. Camus a sua volta voleva raccontare il passaggio di un’epoca, segnato dalla piaga del nazismo fissandone il senso della libertà attraverso la vicenda in una città immaginaria come quella di Orano e dividendo l’umanità tra chi affronta e lotta e chi vuole solo fuggire.
    Nel primo romanzo di Abbate invece la vicenda si svolgeva a Palermo e la fine segnava una volontà di rinascita e riscatto, prima di tutto del luogo a cui l’autore resta profondamente legato. Ora riprendendo la seconda riscrittura ha scelto di non dare un nome alla città in cui si svolge il racconto, ammantandolo di silente smarrimento dal primo momento. Utopia contrappasso protagonista del tempo con il personaggio principale che è un autore di barzellette, sì proprio quella persona che molti si chiedono se esista: ma da dove verranno le barzellette? Proprio lui viene misteriosamente investito di un compito eroico il più eroico dei compiti ovvero salvare l’umanità ma dovrà farlo con le sue capacità, ovvero con una barzelletta a dire che il mondo può essere salvato solo da una risata anche durante un’epidemia. Il potere taumaturgico di una barzelletta può salvare un’intera città dalla peste, dalla morte e soprattutto dallo smarrimento del senso dell’esistenza.
    “Con l’epidemia in atto – scriveva l’autore nella prima versione – bastava un cenno a perdere la memoria, perché memoria significa coscienza del tempo, e non tutti, in certe condizioni, desiderano fare i conti col tempo”. E quello che sembra un romanzo sulla memoria diventa di fatto il racconto di una dimenticanza che diventa sempre più collettiva perché annulla nel paradosso il senso delle nostre vite anche nel bel mezzo di una pandemia. Se riuscirà a scrivere la storia potrà godere delle grazie di due misteriose sorelle, le stesse che gli hanno affidato il compito. Tutto qui. (ANSA).
   

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