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Hijab, velo e libertà delle donne

GIORGIA BUTERA e TIZIANA CIAVARDINI, “HIJAB. IL VELO E LA LIBERTÀ” (CASTELVECCHI, PP. 81 – EURO 11,50 – EBOOK EURO 6,99) – Quando, dopo due mesi di lockdown, la notizia si diffuse sembrò, finalmente, uno squarcio di luce tra tanti giorni bui. Silvia Romano, la giovane volontaria italiana rapita in Kenya, era stata finalmente liberata dopo 18 mesi nelle mani di un gruppo di jihadisti somali di Al-Shabaab.
    Un’euforia durata poco. È bastata l’immagine di lei che, nonostante l’orrore e la paura vissuti, sorridente usciva dall’aereo velata di verde perché l’Italia si dividesse. Una parte, commossa davanti all’infinito abbraccio con la mamma, all’inchino del papà e a quegli occhi felici. Un’altra, pronta a puntare il dito contro lo Hijab che le copriva il capo, contro la conversione all’Islam e il suo nuovo nome: Aisha, come la moglie favorita di Maometto.
    Perché un velo fa ancora così tanta paura in Occidente? E perché, di contro, ci sono donne, nel mondo islamico, che lo indossano con orgoglio mentre altre lo vivono come una prigione? A stimolare la riflessione è “Hijab. Il velo e la libertà”, libro che Giorgia Butera (presidente di Mete Onlus, della Comunità Internazionale Sono bambina, non una sposa e dell’Osservatorio Internazionale Diritti Umani e Ricerca) e Tiziana Ciavardini (antropologa culturale, scrittrice e ricercatrice alll’Università Cinese di Hong Kong) firmano per Castelvecchi, con prefazione della senatrice Emma Bonino. Un viaggio tra storia e significati, sacre scritture e posizioni politiche, dalla clamorosa intervista di Oriana Fallaci all’Ayatollah Khomeini alle testimonianze dirette di chi il velo lo “vive” come segno identitario e di appartenenza e di chi al contrario ne scorge un mero simbolo di sottomissione femminile e lo subisce come le donne che tentano di ribellarsi in Iran.
    Un capitolo a parte è dedicato proprio a chi, come Silvia Romano, ma anche la giornalista italo-siriana Susan Dabbous, si è ritrovato prigioniero di rapitori in terra islamica.
    “Per me – ha detto pubblicamente la volontaria al suo ritorno – il velo è simbolo di libertà”. “Della Romano – riflettono oggi le autrici – non è piaciuta la conversione, come se fosse un argomento di gossip, un dibattito pubblico e non una scelta intima interiore, di cui si dovrebbe avere anche pudore parlarne. Conoscere l’Islam non è facile. Parlarne e scriverne ancora di meno. Chi siamo noi per mettere in discussione una scelta individuale? È tanto difficile per la nostra cultura accettare che una donna possa ‘liberamente’ decidere di convertirsi all’islam e indossare un velo islamico?”.
    “Fortunatamente oggi sono pochi i Paesi in cui il velo integrale è obbligatorio come in Yemen e in Afghanistan – scrive nella prefazione Emma Bonino, già Ministro degli Affari Esteri – Personalmente sono totalmente contraria a qualunque tipo di velo integrale perché tutti devono essere riconoscibili nei luoghi pubblici, ma come noto ci sono diversi tipi di velo”. Anche lei, racconta, ha dovuto indossarlo in alcune occasioni. “In Afghanistan – dice – dove ho vissuto per circa sei mesi, portavo sempre una specie di foulard con le stelline dell’Europa a viso scoperto e questo mi ha fatto spesso pensare alle tradizioni della nostra Italia; mi tornava il ricordo di mia nonna che non usciva mai di casa senza guanti e cappello”. In Iran, invece, le fu “imposto” appena aperta la porta dell’aereo. “Sbagliamo – avverte – se pensiamo che questi regimi non tengano conto di quello che avviene a livello internazionale; molti di loro, come l’Iran, pongono molta attenzione alle pressioni internazionali relative alla difesa dei Diritti Umani. Per questo – esorta – è molto importante continuare a lottare e suggerire a questi Paesi la strada giusta accompagnandoli verso maggiori aperture in processo di cambiamento a favore della libertà della donna e di tutti gli esseri in generale”. (ANSA).
   

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